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Dal seme del Pop, nell’orto dell’Op,
cresce il fiore di Bona

di Franco Batacchi

Conosco Luigi Bona da almeno quindici anni e mai avevo sospettato che in lui germinasse il morbo della pittura. Altrimenti me ne sarei forse tenuto alla larga: detesto i dilettanti allo sbaraglio, le anime belle che vengono folgorate da una vetrina di tele e colori sulla via del tempo libero. Avevo intuito una certa sensibilità istintiva quand’era venuto a visitare il mio studio e si era astenuto dalle stucchevoli domande (che troppo spesso mi vengono rivolte e alle quali rispondo con monotone frasi fatte, per evitare di perdere tempo prezioso) sul “significato” dei miei lavori. Era piuttosto incuriosito dalle tecniche, tema che mi appassiona poiché, grattando la superficie delle argomentazioni critiche gonfie di letteratura e povere di argomenti scientifici, è proprio nella loro genesi che va cercato e ricostruito il profondo valore del mestiere d’artista in quest’epoca dannata dalle tecnologie della riproducibilità “fredda”. Il suo interesse per i “segreti” del far pittura avrebbe dovuto suggerirmi un indizio, ma non l’avevo memorizzato.

Un bel giorno Bona mi avvicina con fare titubante – atteggiamento insolito per lui, di solito tanto schietto da rasentare la ruvidezza – per chiedermi di “andare a vedere qualcosa”, sollecitando in tal modo la mia naturale curiosità. L’incontro avviene a Castello, in una sorta di retrobottega nei pressi del Ponte dei Greci. Bona mi confida: “Da anni provo a dipingere. Ho cominciato come tutti, cercando di riprodurre i paesaggi e le cose che vedevo. Ma a metà di ogni quadro mi bloccavo e non riuscivo a procedere. Mi chiedevo che senso aveva, rifare i soggetti che nel corso dei secoli migliaia di artisti avevano scelto e rappresentato con capacità maggiori delle mie. Ero stato sul punto di abbandonare questa aspirazione, quando un giorno mi sono fermato a guardare il particolare di un abbozzo: una macchia di colore che improvvisamente mi sembrava misteriosamente nuova, quasi palpitante. Da quel momento ho fatto alcuni tentativi in diverse direzioni e non ho ancora individuato la mia strada. Ma da allora porto a compimento i quadri con soddisfazione. Li ho fatti vedere in giro, e sono piaciuti. Vorrei un tuo parere, e meglio ancora, un consiglio”.
Metto subito le mani avanti, spiegandogli che godo di una pessima fama: soprattutto nei confronti degli autodidatti sono prevenuto, quando mi chiedono un giudizio so per esperienza che novantanove volte su cento mi mostreranno cose banali e fatte male; e se insistono per avere un responso, non ho rispetto umano. Dico davvero quello che penso. E sovente cito un aneddoto dei lontani tempi dell’Accademia, quando una signora di buona famiglia andò a presentare la sua figliola per l’iscrizione al Corso di Guido Cadorin. Il maestro squadrò la signorina, vestita come un’educanda, e chiese bruscamente alla madre: “Ma perché vuol farle fare questo duro lavoro?”. La signora prese da parte il grande artista e mormorò: “Vede maestro, abbiamo provato con i licei e anche le professionali, ma ha perso gli anni senza risultati. Non ce la fa proprio. E allora, cosa dobbiamo fare? Se non me la accetta, va a finire che me la ritrovo su una strada. Cosa dice: meglio allieva dell’Accademia che puttana, non crede?”. La replica del burbero Cadorin fu immediata: “No, cara signora, meglio puttana!”.

Per questo sono fortunatamente sempre più rari i neofiti che bussano alla mia porta. Ma non solo i neofiti. Recentemente una vecchia amica, ottima saggista e brava pittrice, si era avventurata sul terreno della scultura e mi aveva chiesto un parere su una sua installazione. Dopo attenta analisi, ero giunto alla conclusione che la terza dimensione non rientrava tra le sue capacità e le avevo comunicato, motivandola, questa mia impressione. Da allora mi ha tolto il saluto. Ma non è una gran perdita: chi si aspetta soltanto lodi dagli amici, non è un amico. E più il tempo passa, più preferisco circondarmi di persone che non amano l’adulazione e coltivano il difficile terreno della lealtà.

Perciò anche con Luigi Bona ho adottato il metro della chiarezza. Prima ancora di vedere i suoi lavori l’ho messo sull’avviso: attento, perché se mi chiedi un giudizio io devo dartelo, e non è mia abitudine indorare la pillola. La sua risposta: “Voglio sapere, senza mezzi termini, se devo smettere o se vale la pena continuare. E ti sarei grato se mi indicassi su quale strada, tra quelle che ho iniziato, eventualmente procedere”. A quel punto mi sciorina una serie di tele coloratissime, dal piglio gestuale insolitamente sicuro. Alcune, molto piacevoli, richiamano il dripping di Pollok in chiave solare, altre la forza oscura delle masse rosso-nere del Vedova anni ’70. Dico all’autore che si tratta di prove incoraggianti, ma datate.

Per inciso, osservo che a Venezia è più facile che altrove cadere nella trappola del déjà-vu: tra Biennale e mille altre occasioni di bombardamento visuale, le immagini circondano vorticosamente chi è predisposto a “recepire” e si depositano nei cassetti della memoria, che poi vengono aperti inconsciamente nel momento critico dell’impatto con il candore disarmante della superficie vergine.

Credo che l’epigonismo di quei primi lavori di Bona sia del tutto inconsapevole. Così come credo che egli avesse voluto mettere alla prova la mia schiettezza, poiché immediatamente mette da parte le tele e mi prega di seguirlo in un altro locale, situato a poca distanza. Con atteggiamento più trepidante – ma, comprenderò in seguito, già fiducioso – mi mostra alcune prove, decisamente più mature: assemblaggi di oggetti applicati su fondi piani e trattati cromaticamente. Non ho difficoltà ad esternargli il mio giudizio positivo. Anche questa è una strada già battuta (da Arman, in primis) ma, visti gli esiti iniziali, mi sembra più consona ai suoi mezzi espressivi e soprattutto foriera di promettenti evoluzioni. Gli suggerisco qualche accorgimento tecnico e gli auguro buon lavoro, con l’intesa che ci rivedremo quando il germoglio si sarà sviluppato in robusto virgulto.

Con mia sorpresa, Bona mi telefona dopo appena due mesi. Lo raggiungo in una piccola galleria, a due passi da Piazza San Marco. Sulle pareti sono appesi i frutti di un’attività che, evidentemente, dev’essere stata febbrile. Mi intrigano particolarmente le composizioni ottenute utilizzando i packages protettivi per uova. Li incolla con precisione uno accanto all’altro, li tinteggia utilizzando diverse modalità (dallo spruzzo all’immersione) ottenendo effetti cangianti, oppure motivi grafici ricorrenti. Talora, sul fondo di ogni piccola conca, fissa perle di vetro o murrine. Gli effetti convincono, tanto per la sobrietà della partitura, quanto per la varietà timbrica. E subito proviamo ad accostare le formelle, immaginandone le infinite possibilità compositive: nascerà presto una mostra formata da un’unica, ininterrotta fascia che, partendo dal nero, percorrerà lungo le pareti l’intero spettro cromatico fino ad approdare al candore illusoriamente immacolato dalla luce.
Anche le altre derive dell’accrochage tra accumulazione, ordine e ritmo gestuale, appaiono incoraggianti. Le fitte trame ottenute con allineamenti di posate e cannucce in plastica, i giochi di rimando tra macchine fotografiche e pellicole, le apparizioni di cravatte con il recupero dello sgocciolamento che ne ironizza l’aplomb, sono tappe di un percorso immaginativo che punta all’individuazione di un mondo espressivo di efficace presa comunicativa. Forse, in tale direzione, le prove più convincenti – e tecnicamente più smaliziate, fino a sfiorare il virtuosismo – sono costituite dalle composizioni in cui Bona sfrutta abilmente la collaudatissima icona della bottiglietta di Coca Cola, offrendone festose declinazioni cromatiche.

Ci siamo rivisti ancora, dopo qualche settimana. Mi ha fatto vedere qualche altro lavoro, che ha confermato la linea di tendenza ormai individuata con precisione, e mi ha chiesto di mettere per iscritto ciò che gli avevo detto nei nostri incontri “a tema”. Ho ritenuto opportuno descrivere la piccola genesi del dialogo costruttivo che è approdato ai risultati che ora vengono per la prima volta proposti al pubblico.

Potrei allungare il brodo dilungandomi su altri riferimenti, oltre a quelli citati. È infatti evidente che l’ascendenza Pop, intersecata dalla Op, inquadra un ambito referente che svaria dalla catalogazione metodica di Christian Boltanski (opposta rispetto a quella sentimentale di Maurizio Pellegrin, o a quella tecnologica di Subodh Gupta) al trash programmato di molta odierna produzione americana. Ma in tal modo verrei a sovrapporre un artificioso paludamento culturale a ciò che in effetti rappresenta il movente di questa “pittura” (e le virgolette sono d’obbligo, poiché i lavori affidano buona parte della loro presa emozionale al rapporto con la terza dimensione, sfruttando una spazialità talora effettiva, ma non di rado allusiva).

Luigi Bona non si esprime partendo dai teoremi, bensì dall’incoercibile desiderio di costruire manualmente oggetti estetici comprensibili e belli: artefatti che hanno diretto rapporto con la vita quotidiana e la produzione di beni di consumo, ma riescono a riscattare la serialità dei mezzi mediante festosi mutamenti di contesto. Sono messaggi in bottiglia, lanciati nell’oceano dell’arte contemporanea, solcato da rotte ingarbugliate e agitato da tsunami astutamente indotti al mercato. L’auspicio è che vengano raccolti da naufraghi felici disposti al sorriso, sulle rive di isole baciate dagli alisei della serenità di spirito. Le opere prodotte con sincerità d’animo devono essere godute con lo sguardo innocente (e intelligente) dell’infanzia. Non a caso Picasso impiegò tutta la sua lunghissima e feconda esistenza per riuscire a disegnare con la crudeltà e la grazia di un bambino.

Credo che le composizioni di Luigi Bona piaceranno a chi ama le canzoni del compianto Sergio Endrigo: ci vuole un seme per fare un fiore e anche una casa piccina, senza tetto e senza cucina, può essere bellissima, purché vi alberghi un briciolo di benefica follia.